Food Sapiens 6 minuti 04 dicembre 2020

Intervista a Niko Romito – premio Michelin “Chef Mentor” 2021

Buongiorno signor Romito,

il 25 novembre, durante la presentazione della nuova edizione della Guida Michelin Italia, ha ricevuto un importantissimo premio: Chef Mentor, che mette in evidenza la sua capacità come formatore ed insegnante. In effetti all’interno di Casadonna oltre al tri-stellato Reale ed alla parte hôtellerie, un luogo importante è rappresentato dall’Accademia Niko Romito, scuola di formazione e volano d’idee imprenditoriali. Quali sensazioni ha provato?
Ricevere il premio “Chef Mentor” alla mia età (46 anni, ndr) mi ha riempito di orgoglio, ripaga ampiamente di moltissimi sforzi: mi torna in mente infatti quando ci trasferimmo da Rivisondoli a Castel di Sangro col sogno di aprire una scuola insieme al ristorante, sembrava follia! Era già complicato aprire un ristorante di un certo tipo a Castel di Sangro, figuriamo una scuola di formazione altamente specializzata. Per fortuna le cose sono andate bene. Certamente anche oggi tengo lezione sulle nuove tecniche di cucina che rappresentano una sintesi di tutto il lavoro fatto negli ultimi anni, mentre il coordinamento didattico delle lezioni è in capo al direttore, Fabio Bucciarelli.
L’Accademia è una parte importantissima della mia attività, fucina di idee, vitalità e contaminazione che si riverberano positivamente su tutto il gruppo. La formazione è fondamentale, non solo per creare nuovi cuochi e trasmettere a chi verrà dopo di me ciò che io ho appreso, ma lo è anche quale “benefit sociale” da restituire agli altri. Ed è una fonte di apprendimento continua anche per me: il confronto con gli allievi – così puri nei loro pensieri, privi di sovrastrutture e di esperienza – mi stimola molto.

Quali sono i collaboratori e gli scolari che l’hanno stupita di più nel loro percorso post Accademia?
Sono quelli che io amo definire metaforicamente “spugne”, lavagne bianche pronte ad assorbire e apprendere al massimo qualsiasi spunto di riflessione. Gli allievi che provengono da un altro percorso di vita e che non hanno un background gastronomico pregresso sono quelli che traggono maggiori soddisfazioni dal percorso di studi. Questa tendenza resta valida anche nella loro carriera lavorativa: in particolare quando decidono di aprire una propria attività, dimostrano sempre di avere grande personalità e di saper conferire ai piatti un’identità originale. Un esempio su tutti è la signora Ceraudo. Caterina venne da me quando non aveva mai cucinato, ma coltivava nel cuore un grande sogno che è riuscita brillantemente a realizzare al Dattilo di Strongoli. Ci sentiamo e confrontiamo ancora, anche oggi. Un altro bel ricordo riguarda Cristian Torsiello; è partito con me da lontano, da Rivisindoli addirittura, dove inizialmente veniva solo nei week end. La bravura e la passione si sono fatte serie ed il suo ristorante Osteria Arbustico a Paestum lo dimostrano ampiamente.

Dal suo punto di vista privilegiato di chef di successo ed insegnate appassionato: cosa significa per lei oggi essere moderno in cucina?
Per me essere moderno significa proporre una cucina con filosofia, tecniche e un’estetica in grado di rispondere alle esigenze e ai gusti delle persone oggi. Modernità per me significa leggerezza, profondità, ragionamento e pensiero applicati alla cucina. E lo dico in senso lato: mi riferisco cioè non solo ai piatti in sé, ma anche all’intendere la cucina e la gastronomia nei loro significati più profondi di strumenti sociali, educativi, estetici, anche politici se vuole nel senso di responsabilità e ricaduta sociale delle proprie scelte. Alcuni miei piatti hanno mostrato sin dall’inizio la loro modernità, e la hanno mantenuta nel tempo: penso all' ”Assoluto di cipolle, parmigiano e zafferano tostato” che ha inaugurato una nuova categoria (non è un brodo, non è esattamente un estratto, è qualcosa di diverso); al grande lavoro in profondità portato avanti sui vegetali o ai dolci-non dolci costruiti con la biochimica degli ingredienti e quasi privi di zucchero. Penso anche al Pane, che per primo ho trattato come portata al Reale - 3 stelle Michelin: un pane frutto di una lunghissima ricerca che lo ha reso sano e goloso e che ha recuperato anche a livello produttivo vecchie varietà di grano abruzzese quasi scomparse. Ecco, per me essere moderno significa questo. [Tracciare una strada nella quale chi mi segue si senta a suo agio, trovi concetti e intelligenza da applicare anche in altri contesti].
In realtà mi sento anche molto contemporaneo, nel senso che la mia ricerca continua è uno sguardo sempre attento sul mondo, un punto di vista privilegiato con cui osservo la società e cerco di coglierne i bisogni, di capire dove posso portare valore utilizzando le mie conoscenze frutto di vent’anni di lavoro.

Da molte parti, in effetti, si sostiene che proprio la sua sia la cucina del futuro, concorda? Le pesa questa altissima considerazione?
Non so se lo sarà, ma certamente sono onorato di tanta considerazione. Io vorrei che lo fosse, soprattutto per quanto riguarda l’applicazione dei protocolli del mio metodo (il metodo NR che ho sviluppato in occasione di Intelligenza nutrizionale) alla ristorazione collettiva. E, negli anni, anche alla cucina domestica.
Se vogliamo parlare di sostenibilità e pensarla applicata alla salute di chi mangia, all’ambiente e alla dinamica della produzione agricola e industriale del cibo, penso che dovremmo ripensare profondamente il sistema gastronomico, che da solo può farsi portatore di molti messaggi importanti anche grazie al lavoro di noi cuochi.
Per me la cucina del futuro deve essere una cucina che fa bene a tutti gli attori della filiera.

Lei utilizza molto spesso verdure, legumi, frutta: hai mai pensato di costruire e gestire un format totalmente vegetariano?
Tendo a non “chiudermi” in modelli prestabiliti, ma piuttosto a lasciare aperte creatività e ricerca quanto più possibile. Credo di più in modelli di ristorazione “inclusivi”, in grado di offrire quante più opzioni possibili. Amo lavorare i vegetali perché è una cosa che ritengo estremamente difficile, e per questo affascinante: nel corso degli anni ho scoperto una ricchezza incredibile in vegetali semplici come la verza, il carciofo, il cavolfiore. Molti dei miei piatti vegetali rappresentano dei punti cardine del mio percorso professionale.

La sostenibilità ambientale quanta importanza ha nella sua vita privata e quanta nella sua vita professionale?  Se c’è differenza...
Sostenibilità è la parola del momento. È una parola complessa e ricca di significati, forse anche un po’ abusata ultimamente, ma è una parola in cui credo molto. Scegliere di vivere in Abruzzo e di costruire il mio mondo partendo da Castel di Sangro – a Casadonna - è una scelta molto sostenibile, perché ha creato valore sul territorio e nella regione. Valorizzare le materie prime locali, recuperare produzioni agricole e vecchie ricette è per me una scelta sostenibile, come lo è anche aver costruito Casadonna con materiali di recupero e un’operazione ambientale e culturale importante di rivalutazione delle maestranze locali. Trasmettere ai miei allievi le basi della cucina italiana per poi rielaborarle creando dei “nuovi classici” e un linguaggio gastronomico originale è una scelta sostenibile.
La mia vita professionale rispecchia i miei valori e il mio pensiero, che è sostenibile perché è prima di tutto radicato sul territorio, di cui si nutre per poi aprirsi al mondo. Così si crea valore a livello locale per poi diffonderlo a livello globale.

Cosa si sente di consigliare alle persone, quali pratiche suggerisce per la gestione quotidiana della “dispensa” e della cucina di casa nel rispetto dell’ambiente?
Evitare l’acqua in bottiglia / in bottiglie di plastica può avere un certo impatto. Come anche la scelta di cucinare in sé, impiegando del tempo per mangiare bene e quindi evitando alimenti troppo “impacchettati” e già pronti, oltre che contribuire a ridurre i rifiuti mantiene viva una cultura dell’alimentazione. Penso che la gestione della dispensa e della cucina di qualsiasi persona vada ragionata e programmata in linea con la stagionalità dei prodotti, le esigenze nutrizionali e, perché no, anche in base a delle scelte ecologiche, prediligendo prodotti di qualità che non impiegano conservanti, possibilmente locali, attenti anche al packaging, etc.

Al di là di quanto sta accadendo in questa fase complicata dovuta al Covid e che sta bloccando momentaneamente le frontiere, in realtà ormai anche nel suo ristorante con 3 stelle Michelin i clienti stranieri sono una grossa fetta di pubblico: si sente ambasciatore del made in Italy?
Sì. Perché il marchio Made in Italy – e i concetti che ci sono dietro –rappresentano molte cose: artigianalità, bellezza, gusto, storia, cultura, tutti valori che perseguo quotidianamente nel mio lavoro, in cui credo profondamente e che ci rappresentano nel mondo. Per me è un onore poter trasmettere a tutte le persone che arrivano a Casadonna non solo me, il mio gruppo e la mia cucina, ma anche lo spirito vitale del made in Italy nel suo complesso che unisce cucina, design, arte, artigianalità, paesaggio. Bellezza.

Uno dei suoi must è sicuramente la concentrazione dei sapori: quale ritiene essere il suo miglior piatto cucinato col minor numero di ingredienti?
Uno su tutti è “Cavolfiore gratinato”. Qui l’unico ingrediente è il cavolfiore – con solo qualche goccia di estratto di rosmarino in aggiunta - ma nonostante ciò è un piatto di incredibile complessità e ricchezza. Anche “Carciofo e rosmarino” è semplice ed essenziale eppure potente.
Certamente tra lei e l’Abruzzo c’è un grande rapporto di cuore, giustamente utilizza moltissimi ingredienti della sua regione in moltissime ricette, quali sono, al contrario, quei prodotti nazionali od internazionali cui, pur non provenendo dall’Abruzzo, non rinuncerebbe mai?
Conosco molto bene le materie prime del mio territorio e ho una grande stima dei produttori locali che negli anni hanno fatto un enorme lavoro sulla qualità degli ingredienti. Ingredienti che in molti casi sono diventati protagonisti dei miei piatti e che mi rappresentano bene, anche alla luce del legame geografico e culturale che c’è. Allo stesso modo, tanti altri prodotti nazionali sono materie prime eccellenti che testimoniano il grande valore della biodiversità italiana. Nella selezione delle materie prime cerco sempre di scegliere la massima qualità ed espressione di un territorio per ciascun ingrediente. In Italia abbiamo questa straordinaria possibilità, sfruttarla significa anche valorizzare le specificità locali, il lavoro e la conoscenza di tutti.

Come riesce ad identificare così nettamente la precisa linea che divide minimalismo e “poco”?
Beh…poco è un termine con un’accezione negativa: poco è poco rispetto a un “molto” che non c’è o non si può avere. Invece “essenziale”, “minimalismo” sono termini che implicano una scelta volontaria, stilistica e filosofica. Tutti conosciamo il concetto di “less is more” (di Mies van der Rohe): io lo pratico in cucina e nella vita. Significa dare il massimo risalto a pochi elementi scelti con cura, in cucina così come in architettura; concentrare la massimo la potenza espressiva anche di un singolo ingrediente senza ulteriori distrazioni. Tutt’altro che poco.

Lo stile del locale che da ex monastero rimane monastico nella pulizia, la cucina dalle linee minimaliste, l’utilizzo preponderante del colore bianco nel web: questa grande uniformità d’immagine aiuta in termini di comunicazione?
È un’immagine che mi e ci rappresenta, e quindi penso di sì. Certamente la coerenza aiuta a comunicare i nostri valori chiave che sono sempre gli stessi, nonostante si declinino in canali e supporti diversi. La coerenza è la nostra forza, e la nostra semplicità. Che non è appunto banalità o pochezza, ma è una dichiarazione di valori e di intenti.

La brigata del ristorante Reale per definizione è abituata ed allenata a gestire l’elevata pressione che i grandi riconoscimenti di critica e pubblico portano con sé: quali strategie applicate per non sedervi mai sugli allori e mantenervi sempre “on fire”?
Non applichiamo nessuna strategia particolare. L’attitudine a migliorarsi continuamente è qualcosa di molto personale: o ce l’hai o non ce l’hai. Anzi, con il fatto di avere molte attività da gestire spesso non abbiamo nemmeno il tempo di festeggiare nel modo giusto. In ogni caso, cerchiamo sempre di riflettere su cosa ci ha portato a raggiungere o non raggiungere determinati risultati, contestualizzandoli nel tempo e nello spazio. Ci chiediamo cosa potremmo fare meglio, cosa invece abbiamo fatto bene e riflettiamo su come ci siamo arrivati. Sedersi sugli allori non è pensabile perché il nostro lavoro è per definizione un lavoro di ricerca, potenzialmente infinito.



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