Sostenibilità 8 minuti 20 ottobre 2021

Stella Verde MICHELIN: Joia, Milano

Pietro Leemann: maestro di cucina naturale!

Pietro Leemann è un uomo che con grazia riesce, con una cucina più unica che rara, a raccontare la propria vita, ancor più quella interiore che quella visibile agli occhi. Già questo, in effetti, è un risultato per nulla scontato, in un’epoca in cui al centro dell’universo sembrano esserci le emozioni, merita sempre un plauso ulteriore chi riesce con sincerità a mostrarle attraverso il proprio mestiere. Durante gli anni e i diversi menu, chef Leemann ci ha condotti attraverso un’evoluzione spirituale personale che lo ha portato da trascorsi canonici ed onnivori, grazie di certo all’incontro evidentemente avvenuto a cuore aperto con l’Oriente, verso l’attuale dimensione gastronomica vegetariana. Addirittura, oggi, la carta del suo ristorante Joia - unica stella MICHELIN vegetariana italiana - è in massima parte vegana e preparata senza glutine. Per cui, ad esempio, non si utilizzano uova e nemmeno latticini a caglio animale. Una cucina che nelle parole del suo fautore è “non violenta, biologica; … grande attenzione è data ai piccoli produttori perché crediamo nell'artigianalità come valore assoluto e infatti su questo valore è stato fondato il Joia Lab, un laboratorio di produzione di proteine vegetali, fermentati, formaggi vegetali ed altri ingredienti protagonisti del menu”.

Il suo locale Joia per ora è l’unico stellato italiano, vede energie e buoni allievi in giro per il Belpaese?
L’evoluzione della cucina vegetariana è esponenziale e tale evoluzione dipende, e deriva, da due fenomeni: il primo è legato alla ristorazione gourmet che sempre più propone piatti vegetariani all’interno dei menu; il secondo fenomeno è quello legato all’apertura di molti ristoranti vegetariani la cui qualità è in miglioramento, con anche realtà di un livello pregevole sebbene non sempre, e non ancora, a livello dei ristoranti gourmet o del Joia. Ci sono stati dei miei allievi che hanno aperto dei loro locali, in particolar modo mi riferisco a Fabrizio Marino con il suo Maggese a San Miniato, che è un ristorante molto buono, e a Rie e Francesco con il loro ristorante Orterie a Stazzona in Valtellina. Entrambi sono allievi molto bravi e molto promettenti che fanno una cucina eccellente, così come negli anni moltissimi cuochi sono passati dal Joia e sottilmente, o non solo sottilmente, c’è stata poi un’influenza sia su un piano creativo che intellettuale, quindi si è modificato il loro approccio filosofico alla cucina vegetariana e questo ha comportato un cambiamento del loro modo non solo di fare ma di pensare la cucina.


Già da prima che, giustamente, diventasse argomento del giorno su tutte le agende del mondo, Pietro è stato maestro indiscusso di cucina naturale scelta come primo, fondamentale presupposto per la sostenibilità, sia dal punto di vista ambientale che sociale. La gran classe e bravura dello chef veg italiano per antonomasia sta anche nel non essersi accontentato di sentirsi nel giusto, anche dopo i riconoscimenti ed i successi ottenuti ha continuato ad alimentare la sperimentazione di ingredienti e sapori, lo studio e la continua progressione della tecnica e dell’estetica dei piatti. Forse il suo segreto sta proprio in un carattere che lo pone sempre ed in maniera naturale all’avanguardia. Sempre e comunque in armonia con la natura: come se stando in equilibrio perfetto facendo tai-chi ci raccontasse e ci cucinasse incredibili piatti gourmet. Piatti che hanno fatto parlare di loro, tanto per i nomi visionari, quanto per la concreta bontà e raffinatezza, come per “Un sasso che rotola” (ovvero una sfera croccante fuori e fondente dentro di fontina e mais, con salsa di carote dolci e zafferano, pesto di verze verdi e rosse, gratin goloso di rape di montagna) o “Le mie dolci verdure” (preparato di volta in volta con le verdure più adatte, delicatamente sciroppate con mousse di cioccolato bianco e miele, gelato di vaniglia con salsa di olivello del bosco vicino a casa). Negli anni tutte queste idee ed alcune ricette, insieme ad altre più semplici pensate per una cucina domestica, sono state pubblicati in numerosi libri (“Il sale della vita. Un cuoco vegetariano alla ricerca della verità”, “Il codice cucina vegetariana”, “In verde. La filosofia vegana di Pietro Leemann”, solo per citarne alcuni) …


Quale tra i libri che ha pubblicato le è più caro e perché?
Negli anni ho pubblicato 13 libri che spaziano naturalmente da libri di ricette e di cultura del cibo vegetariano, ad altri di cultura generale come quello che ho pubblicato, dal titolo La cucina di Villa Suiyuan, che mette a confronto la gastronomia del grande gastronomo e letterato cinese Yuan Mei - contemporaneo al poeta e letterato Brillat-Savarin - con quella della cultura gastronomica dell’Occidente. È un libro a cui tengo molto perché non solo mi ha portato a parlare della cultura della Cina che amo moltissimo, ma anche perché in fondo è un’opera che esce dalle righe rispetto a ciò che ho pubblicato. Poi il libro chiamiamolo conclusivo o più recente è Il Codice della cucina vegetariana che in realtà è un compendio di trent’anni di esperienza durante i quali la cucina, una cucina vegetariana che non esisteva, è stata sperimentata e codificata da Joia. È un libro che sistematizza ciò che non esisteva prima, un’enciclopedia dalla A alla Z in cui si imparano tutti i segreti e i presupposti della cucina vegetariana che possono anche servire per concepire, e creare, un ristorante con un taglio molto professionale. Il libro è un approfondimento a 360 gradi: dal senso del vegetarianismo alla conoscenza degli ingredienti, dagli stili agricoli come il biologico e il biodinamico alla filosofia che porta a essere vegetariani, da come si organizza una brigata per un ristorante come il Joia a ricette base, dai tagli alle cotture e così via. Quindi sintetizzerei affermando che Il Codice della cucina vegetariana è un po’ il sunto di trent’anni di lavoro e ha rappresentato, per la sua complessità, un impegno lungo un anno.


Il suo apporto culturale e divulgativo al settore si è manifestato anche nell’ideazione e fondazione di The Vegetarian Chance con il concorso di cucina abbinato.


Perché the Vegetarian Chance ed il concorso abbinato?

Mi sono reso conto che la cucina vegetariana è una realtà ormai assodata e molte sono le persone che diventano vegetariane. C’è da dire che da una parte esiste un vasto pubblico in Italia che, dopo il Covid, ha raggiunto addirittura il 10% della popolazione e questi sono numeri davvero molto importanti. Dall’altra parte, da sottolineare, è che in passato i cuochi che pensavano vegetariano non erano cuochi che sapevano cucinare in un modo eccellente; sicuramente erano persone virtuose in quanto avevano fatto delle scelte precise nella loro vita, optando per la linea vegetariana a difesa del pianeta, degli animali, etc… Una scelta portata nella loro cucina che, però, era a volte improvvisata con piatti che risultavano alla fine essere sani, ma poveri e tristi. Al Joia il percorso è stato più completo perché da subito il ristorante ha portato nella cucina e nella sua pratica, pur rispettando i parametri sopra citati, anche l’aspetto del piacere, della salute, dello stare a tavola e del come starci, della cultura del cibo etc... Mi sono reso conto che il motivo per il quale la cucina vegetariana non decollava nei ristoranti “generalisti”, chiamiamoli così, era perché i cuochi non avevano una completa e consolidata concezione vegetariana. Questi cuochi sapevano cucinare ma non sapevano come cucinare vegetariano, ecco quindi che l’idea del concorso è nata per fare in modo di metterli alla prova e di chiedergli di mettersi in gioco, entrando in un paradigma diverso e nuovo rispetto al loro precedente. Questo ha implicato la costruzione di un nuovo orizzonte pratico e teorico nel quale la verdura non è più solo un contorno, qualcosa che metto accanto ad altro, ma qualcosa che diviene il protagonista di un piatto. Posso dire con soddisfazione che negli anni, sono già sette anni che si svolge il concorso, abbiamo avuto effettivamente dei risultati molto interessanti. I primi tempi questi risultati li abbiamo avuti spesso con persone venute dal nord per esempio dalla Svezia, dalla Norvegia, dalla Olanda che imparavano da noi una cucina che forse era già molto nelle loro corde, perché vicina al movimento nordico di una gastronomia profondamente legata al territorio e al mondo vegetale. Poi il peso si è spostato più a sud travalicando anche il mare, perché l’ultimo concorrente che ha vinto proveniva dal Giappone. Quindi sicuramente quella sensibilità verso il vegetale, e verso le sue molteplici declinazioni, è sempre più presente e il senso del concorso è proprio quello di continuare a sensibilizzare e a stimolare i cuochi a pensare vegetariano in modo tale che la cucina vegetariana, che è un po’ la missione della mia vita, diventi il cuore e l’essenza della alimentazione in senso ampio e per tutti. Perché questo sia possibile, bisogna che anche i cuochi si mettano all’opera per cambiare il nostro presente.


Beh, Pietro Leemann, davvero, molto più che uno chef. Davvero uno chef filosofo.


Le piace la definizione di chef filosofo?
Innanzitutto, bisognerebbe definire che cosa sia la filosofia. Forse la filosofia è un tentativo, attraverso il pensiero e l’esperienza, di migliorare la propria vita e possibilmente la vita degli altri. In fondo questo miglioramento è un mio intento che cerco di raggiungere attraverso la cucina che faccio, un intento rivolto non solo a me, ma anche al pubblico e al mondo che mi circonda. Mi sento sì filosofo, anche se è un po’ una parolona definirsi filosofo, ma ritengo che la filosofia abbia senso solo se viene messa in pratica. L’inclinazione a fare filosofia penso sia nel pensiero di ognuno perché in fondo siamo tutti filosofi, ed è anche l’ideale di ognuno ma se l’ideale resta tale e non viene calato nella realtà, allora la filosofia si identifica solo come una pura teoria che non viene messa in pratica, quindi con poco senso e priva di forza. Una filosofia che si perde nel nulla tanto che si finisce a pensare in un modo e ad agire e a vivere totalmente in un altro. Come cuoco, nel mio caso cuoco vegetariano, mi sento molto fortunato perché ciò che faccio è la messa in pratica della mia visione di vita che si esplica a favore dell’amicizia con tutti gli esseri viventi, con il caro Pianeta che ci ospita e anche con l’ospite che viene al mio ristorante. Rappresento chi ha avuto l’opportunità di sperimentarsi in un modo che sottilmente, e ciò è successo spesso in passato, va a influire e modificare il suo pensiero. Fa parte ancora della mia filosofia, e di quello che penso debba essere, credere che infondo sia innato in ognuno di noi il pensiero “amico della natura, amico della salute e amico degli animali”. E quindi cosa succede? Il cliente che viene al Joia si ritrova in una dimensione che intimamente gli corrisponde, una sorta di purezza ontologica che è in ognuno di noi: spesso sopita dalla vita indaffarata o dalle abitudini acquisite. Una purezza che però in modo latente è lì e che, appena la si stimola verso un cibo giusto e puro, è pronta a riattivarsi. Il successo del Joia è proprio legato a questo aspetto, nel senso che il suo modo di essere e di esprimersi avvenga attraverso un linguaggio non avulso dalla persona, ma in grado di dialogare con la sua intimità.

©Pietro Leemann
©Pietro Leemann

Un’alimentazione sana è imprescindibilmente anche sostenibile?
Questa è una domanda interessante! Buono e giusto sono sinonimi. Il buono se non è giusto quindi sostenibile non può essere definito tale, perché finisce nella sfera dell’artifizio che si scollega dalla sostenibilità e da quello che è il senso dell’alimentazione stessa… che quando è sana è anche sostenibile, quando è buona è sostenibile e quando è giusta è sostenibile.


La sua visione della cucina rispetta criteri etici, morali e spirituali, quanto spazio e come entrano in tutto ciò i bisogni contemporanei di piacere, di gusto?
Mi sono sempre chiesto per quale motivo spesso i ristoranti, e di conseguenza le guide gastronomiche, dessero più importanza al piacere e quindi al buono e al godimento di un cibo buono ma a volte eccessivo, a volte poco etico e a volte poco salutare, rispetto invece a una cucina che fosse sempre buona e - al contempo - sostenibile e sana. Questo atteggiamento diluisce per me la forza di una vera cucina che oggi nel presente dovrebbe considerare gli aspetti della salute, ma anche gli aspetti etici e morali e perché no spirituali, in quanto dobbiamo ricordarci che noi siamo ciò che mangiamo, diventiamo ciò che scegliamo di mangiare a livello molto profondo. Di conseguenza un’alimentazione che ci rispetta e che rispetta il mondo che ci circonda, o un’alimentazione che non fa violenza sul mondo e su altri esseri, implica una cucina che ci accarezza dentro e che ci fa essere in ogni caso delle persone migliori perché in pace con noi stessi. Di conseguenza la spiritualità che sembra un elemento astratto, nel senso che oggi ha una connotazione più ideale che reale, in realtà è estremamente concreta perché il gioco della vita è sulla trasformazione e su quanto siamo in grado di metterci in gioco per evolvere. Il viatico è il nostro agire e di conseguenza anche quello che noi mangiamo, che se ponderato nel modo giusto porta a un livello di benessere profondo indispensabile e imprescindibile.


Vivendo in Cina e in Giappone ha avuto modo di conoscere la dietetica cinese: “un sistema filosofico e alimentare straordinario che approfondisce il funzionamento del corpo messo in relazione al Cosmo”. Partendo da questo presupposto che lei spesso cita, ritiene che cucina cinese e tradizione mediterranea possano convivere?
La Cina ha una cultura alimentare straordinaria data da millenni e i cinesi hanno capito da tempo come la scelta alimentare sia la chiave del benessere fisico, ma anche del benessere profondo quando è in relazione con il Cosmo, perché il senso più alto della nostra esistenza è vivere in armonia con il mondo che ci circonda. In Occidente con Ippocrate e la sua affermazione “Fai che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo” anche qui si è pensato allo stesso modo, così come nella tradizione popolare effettivamente il cibo che si mangiava, quando lo si faceva in modo non sconsiderato, lo si pensava per nutrirsi e per essere in buona salute pur, magari, non raggiungendo quelle vette conquistate dalla cultura della Cina antica o anche dalla cultura ayurvedica. Entrambe ci insegnano in modo olistico la forza e il valore di un’alimentazione sana e anche la relazione dell’uomo e della donna rispetto al micro e macrocosmo, rispetto a quello che siamo dentro e a quello che c’è fuori di noi, etc. La cucina vegetariana, che non ha nulla da invidiare alla grande cucina cinese come contenuto alimentare, fa un lavoro simile in modo probabilmente meno consapevole: una sorte di fortuna dettata dal luogo in cui si vive, dagli ingredienti che si trovano che di per sé sono fondamentalmente sani e che quindi mantengono le persone sane e spesso longeve. L’asino casca, possiamo dire, in un eccessivo edonismo che può essere presente in occidente come in oriente, per esempio si può incontrare un cinese che pur conoscendo la sua grande cultura antica, non rispetta i precetti del mangiare equilibrato e che decide invece di eccedere nel mangiare tanto da divenire in sovrappeso non vivendo bene. Allo stesso modo spesso nella cucina mediterranea c’è chi rimane in buona salute perché è una persona attenta al cibo che mangia e lo fa in modo ponderato e calibrato.

Piatto Principale - Joia ©Andrea Gilberti
Piatto Principale - Joia ©Andrea Gilberti
“La mia cucina è amica del pianeta, dei suoi abitanti, e di chi la mangia. Essa deve tenere conto di tutti questi aspetti per essere in armonia con la terra e la sua sostenibilità. Il nostro compito risiede nella conoscenza, nell’esercizio, nonché nella divulgazione (anche a tavola!) di quelle informazioni atte a garantire tale equilibrio. Il concorso di cucina vegetariana da me indotto e i libri che nel corso degli anni ho pubblicato s’iscrivono in tal senso. — Pietro Leemann”

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